Cosa ci insegna una scuola dell’infanzia a Pavullo

 

A Pavullo, in provincia di Modena, 17 400 abitanti, nella scuola dell’infanzia statale “Mariele Ventre”, i Carabinieri installano delle videocamere nella sezione di una maestra e registrano per vari giorni ciò che accade. Le immagini, quel poco che ci è stato mostrato nei TG, e le testimonianze di alcuni genitori che hanno avviato la procedura ascoltando il disagio dei loro bambini, bastano a farci capire che lì, nel chiuso di quella sezione, il lavoro della maestra non era propriamente “educativo”. Tralascio i dettagli che ognuno può trovare nelle cronache della stampa locale e su internet.

Siamo qui a chiederci, ancora una volta, come è possibile che ciò accada. Altri episodi analoghi in varie regioni del nostro Paese, sono avvenuti in scuole dell’infanzia e nidi: stessi segnali di disagio raccolti da genitori di bambini, stesse procedure, stessi atti investigativi e giudiziari. Il punto è questo: nel momento in cui un’insegnante entra in sezione e chiude la porta dietro di sé, ciò che lì avviene lo sa solo lei e i “suoi” bambini. La scuola e la famiglia sono i luoghi socialmente meno trasparenti. Ma se per la famiglia può valere il principio della privacy, la scuola è “pubblica”, non solo quella statale, ma anche quella paritaria (sia essa comunale o gestita da enti privati), come lo è il nido, servizio pubblico anche se a domanda individuale gestito direttamente da Comuni o da soggetti convenzionati.

Basterebbe questo a farci comprendere il livello straordinario di responsabilità non solo pedagogica, ma anche sociale di chi, professionalmente, si occupa di educazione dell’infanzia. Responsabilità viene dal latino respondere, per cui avere una responsabilità, essere responsabili, significa dover rispondere di qualcosa a qualcuno. Ancora di più: spondeo, sponde˘ re in latino significa promettere, garantire sulla base di un impegno preso e di un patto condiviso. Nel caso di un insegnante, egli risponde, in base alla responsabilità del proprio ruolo, non solo agli interlocutori sociali e istituzionali di riferimento (le famiglie, la scuola), ma risponde anche dei soggetti che ha in carico.

Torniamo al fatto in questione, e a tutti quelli analoghi avvenuti (e che potrebbero avvenire): succede che dei genitori raccolgono i segnali di disagio di bambini che frequentano la stessa sezione di scuola dell’infanzia e decidono di non andare dalla dirigente scolastica ponendo a lei il problema e facendo leva sulla sua responsabilità istituzionale, ma vadano direttamente dai Carabinieri. Raccolte alcune segnalazioni, si rivolgono all’autorità giudiziaria che decide di avviare la procedura che conosciamo. L’insegnante viene prontamente sospesa dal servizio e messa agli arresti domiciliari, successivamente revocati con l’ingiunzione di non avvicinarsi alla scuola.

Le questioni sono due. La prima, parte dalle dichiarazioni della dirigente scolastica che si è detta del tutto ignara e stupita di ciò che in quella sezione del suo istituto comprensivo avveniva. L’immagine che ne ricaviamo (solo un’immagine) è quella di una dirigente che non gira per i corridoi del suo Istituto, non entra nelle classi, non osserva direttamente, non ascolta, non parla con i suoi insegnanti. Va tutto bene. Che la scuola dell’infanzia negli Istituti comprensivi sia spesso all’ultimo posto delle attenzioni del dirigente, è cosa nota a chi si occupa di questo grado scolastico (che non è nemmeno dell’obbligo…). Un/una dirigente sa qualcosa di scuola primaria o secondaria, poco o nulla di scuola dell’infanzia, se non ha un interesse particolare in questo campo o ha deciso di conoscerne la specificità pedagogica.

È noto, peraltro, che i genitori che si rivolgono al dirigente scolastico ponendo problemi su comportamenti o competenze di un insegnante ritenuti inadeguati, il più delle volte si trovano davanti il muro di una burocrazia (e di un accanimento garantista) dove tutto si può riassumere con la celebre frase del dialogo manzoniano fra il Conte Zio e il Padre superiore, allorché di fronte a una questione spinosa da risolvere, la risposta è “sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”. D’altronde, che cosa diriga un dirigente scolastico, è una domanda che molti si fanno.

A questa “indifferenza istituzionale” (per usare un eufemismo) si somma un’altra indifferenza, quella di colleghe dell’insegnante incriminata che magari lavorano in sezioni attigue; e allora ci si chiede: possibile che nessuna di loro abbia colto il minimo segnale di disagio, un sospetto che qualcosa non andasse in quella sezione e nella loro collega, quelle urla che abbiamo sentito nelle videoregistrazioni dei Carabinieri avvenivano nel deserto o in una scuola abitata? Abbiamo scritto la parola “indifferenza”, ma abbiamo pensato la parola “omertà”.

Di qui arriviamo alle seconda questione: i genitori dei bambini vittime di una situazione di abuso educativo nella scuola che frequentano, non si fidano di chi quella scuola la dirige e dovrebbe garantirne il buon funzionamento, la qualità educativa e intervenire come responsabile dell’Istituto quando è necessario. I genitori sanno che, probabilmente, non succederebbe niente (sopire… troncare…) ponendo il problema, avanzando preoccupanti sospetti sulla base di ciò che i bambini riportano loro. Quante volte si è assistito a questo non-esito a fronte di reiterate, ordinate, istituzionali segnalazioni? Così i genitori decidono di bypassare l’istituzione e andare direttamente dai Carabinieri, i quali valutano e operano secondo le loro modalità.

Ciò che avviene, di fatto, è la rottura di un’alleanza su un mandato educativo, sul patto di fiducia che dovrebbe legare la famiglia e la scuola (insegnanti, dirigente) dove iscrivo mio figlio/figlia perché riceva l’educazione che è propria della scuola, in base alla Costituzione.

Il carico psicologico e pedagogico del lavoro educativo è più arduo da gestire, e di conseguenza è più alta la responsabilità, laddove la relazione è più asimmetrica: nido e scuola dell’infanzia, centri per soggetti disabili. Non a caso è in queste realtà che si verificano i fatti di cronaca più aberranti di abuso da parte degli adulti nei confronti dei soggetti che sono loro affidati, bambini molto piccoli (infans è colui che non può o non sa parlare), oppure persone i cui handicap li pongono in una condizione di forte dipendenza da chi si deve prendere cura di loro.

È legittimo chiedersi quale sia la formazione sul piano “personale” (non quella “formale”, poiché non dubitiamo che l’insegnante di Pavullo abbia i titoli e sia abilitata) dedicata specificamente a chi intraprende questo mestiere e se vi sia una supervisione periodica sul loro lavoro, necessario per il livello di coinvolgimento emotivo e relazionale che comporta. E dovremmo anche chiederci quanto è pagata un’educatrice che lavora in un nido o che si dedica quotidianamente a un bambino autistico, quando ne riconosciamo una buona o eccellente professionalità? Dovrebbero saperlo i genitori dei bambini in questione, perché a fronte di un’insegnante pericolosa come quella di Pavullo, ce ne sono molte (la maggioranza per fortuna) che, a parità di stipendio, svolgono il loro lavoro con una competenza e una responsabilità pedagogica adeguata, buona, ottima. Bisognerebbe valutarla la professionalità e premiarla quando è il caso, ma questo è un altro discorso…

Ciò che constatiamo ogni giorno di più non è l’assunzione di responsabilità da parte di chi, lavorando in campo educativo, sa che deve rispondere a… e rispondere di…, il che comporta anche la disponibilità a correre qualche rischio, a osare nel fare esperienze, a confrontarsi su ciò che si fa, a tenere porte e finestre aperte sul proprio lavoro. Piuttosto prevale l’irrefrenabile bisogno di non assumersi responsabilità, sentite come un peso fastidioso, piuttosto che un connotato fisiologico del proprio lavoro. E così ognuno vuole la “copertura” di altri rispetto a qualunque azione comporti responsabilità; nessuno si sente responsabile di alcunché.

Se a un’insegnante capita di sentire strane cose nella sezione accanto, di cogliere un segnale che potrebbe far pensare a qualcosa di anomalo, meglio non curarsene: Don’t ask, don’t tell (non chiedere, non dire) DADT è la formula politically correct a cui ci si attiene nell’esercito USA per ciò che riguarda gli orientamenti sessuali dei suoi membri. Succede anche qui: “non chiedere, non dire”, ma in un senso diverso poiché in molti casi anche meno eclatanti di quello di Pavullo, sarebbe necessario chiedere o dire. L’Arma dei Carabinieri merita tutta la fiducia che il Paese mostra nei suoi confronti, ma dovrebbe essere l’ultimo interlocutore, non il primo. Se si arriva subito in caserma a chiedere aiuto, vuol dire che prima nulla è successo: nessuno ha chiesto, nessuno ha detto. Oppure che chiedere e dire non serve a nulla. Pensare che il controllo sociale sull’educazione dell’infanzia nelle scuole e nei nidi sia affidato alle telecamere dei carabinieri, o di gruppi di zelanti genitori che chiedono di installarle, evoca un inquietante immaginario fantapedagogico.

Roberto Farné

 

Cinque buone ragioni di cambiamento

 

È proprio vero, quello che sosteneva un valente giornalista, non più tardi di quattro anni fa, a Modena nell’ambito di un convegno dei Coordinamenti Pedagogici Provinciali dedicato alla rete tra i servizi per la prima infanzia: “Il nido buca lo schermo solo se c’è un fatto grave, se viene picchiato o maltrattato un bambino, diversamente non se ne parla”. La qualità dei servizi molto raramente va in prima pagina, anzi addirittura di qualità (che spesso richiede anche investimenti economici impegnativi e in questo periodo il problema è sempre più grave) non si parla proprio ed evocarla poco aiuta a parare le spalle in casi come questo dove, a onor del vero, il nido d’infanzia c’entra poco.

Il nido d’infanzia, nella triste vicenda di Pavullo, non c’entra per nulla. Invitiamo quindi, anche per non creare inutili e gratuiti allarmismi, a chiamare le cose con il loro nome. La scuola dell’infanzia non è “l’asilo” come ancora molti (politici, genitori ed anche addetti ai lavori!) chiamano il nido d’infanzia, riconsegnandolo senza volere (?) ad una dimensione di puro luogo di ricovero, che nulla ha a che spartire con i nidi e i servizi per la prima infanzia odierni, nella nostra regione in particolar modo.

Vero è poi che anche la miglior educatrice, la migliore insegnante – per soffermarci un attimo sullo specifico del caso in questione – può andare in burn out (“Ma nessuno almeno una volta, per caso, se ne è mai accorto?”, “Era sempre da sola?”, “Nessuna collega ha cercato di aiutarla, di contrastare i suoi presunti comportamenti sbagliati?”, “Nessuno ne ha parlato con lei ed anche con il dirigente per cercare insieme una ragione e poi una soluzione?”) e, anche se è improponibile scusare qualsiasi comportamento violento verso i bambini, almeno si può tentare di dare un significato all’eventuale malessere che potrebbe aver provocato quello che pare sia accaduto.

Ci si consenta quindi di esaminare il problema da un punto di vista squisitamente tecnico, non accogliendo e non giustificando per nulla l’esito del disagio di un insegnante (quella o altre in questo momento non importa), cercando però di individuarne alcune cause, quelle di natura non patologica almeno.

In questo momento storico una legge, la 107/2015, sta tentando di mettere ordine nel sistema scolastico; nell’ipotesi della “buona scuola” molto ci sarebbe da copiare dai nidi d’infanzia, da parte delle scuole statali in primo luogo. Per diverse ragioni, vediamone alcune.

La prima: la totale assenza di compresenza nella gran parte della giornata scolastica ed il numero dei bambini (25, 28,di più anche a volte) di cui una persona deve occuparsi senza l’aiuto di una collega se non nel momento del pasto. Si può pensare ad un serio intervento educativo se devi metterti in relazione e aver cura di tanti bambini da solo?

Fare educazione assieme, in lunghi periodi di compresenza di due colleghe nella stessa giornata (cosa che avviene normalmente nei nidi e nelle scuole dell’infanzia comunali che conosciamo) non solo favorisce un’azione educativa più curata e vicina agli interessi ed alle possibilità dei bambini, ma comporta la responsabilità di un numero più ridotto di bambini e la naturale e normale operazione di condivisione e confronto professionale, ed anche di supporto e controllo reciproco. Il nido e la scuola devono essere ambienti in cui i professionisti che vi operano necessitano di controllo? Senza aver timore di questa parola ci sembra invece corretto che ci sia reciprocamente cura del benessere personale e professionale di ciascuno all’interno di un processo riflessivo che aiuti a contenere la normali, quotidiane, difficoltà. Non dimentichiamo che nella fascia 0-6 anni i professionisti dell’educazione sono quasi esclusivamente donne che sì, hanno la dote di essere multitasking, cioè di riuscire a fare ed a gestire più ruoli contemporaneamente, ma questo, nel tempo, logora. Non si può essere sempre equilibratissimi se si è nello stesso momento insegnante, madre, figlia, moglie, collega, sorella, zia, nuora (e potremmo proseguire) senza condizioni di aiuto e supporto.

La seconda: l’assenza di un responsabile che non stia seduto in un ufficio, ma entri nei servizi, concerti metodi e strategie, parli ed aiuti il personale a fare il proprio lavoro al meglio. Stiamo parlando del coordinatore pedagogico, figura pressoché sconosciuta nei servizi statali e che invece, ironia della sorte, aveva visto una interessante sperimentazione, con fondi regionali, realizzarsi e poi concludersi negli anni scorsi proprio a Pavullo. Se non c’è il coordinatore ci sono altre figure, c’è il dirigente scolastico, ci si potrebbe obiettare. Che tipo di intervento di supporto pedagogico può offrire un dirigente impegnato a gestire soprattutto sotto il profilo burocratico-amministrativo istituti comprensivi sempre più complessi e dal numero enorme di docenti? Quando poi allo stesso dirigente non vengono affidati più istituti.

Difficile allora trovare una risposta convincente ad un quesito che sorge spontaneo “Chi ha cura di chi cura?”. Non è un gioco di parole, ma un problema di gestione delle risorse umane che nei servizi come il nido e le scuole dell’infanzia comunali e paritarie rappresenta uno dei nodi cruciali attorno ai quali si svolge l’intervento del coordinatore pedagogico. Se gli adulti non si sentono accolti, sostenuti in una dimensione di benessere professionale, molto difficilmente gestiranno al meglio la loro relazione con i bambini, con le famiglie e con i colleghi.  

La terza: la sporadicità dei momenti di lavoro per la messa a punto e la gestione di un progetto educativo e formativo comune. Quanto tempo è riconosciuto all’insegnante di scuola dell’infanzia statale per la condivisione con un gruppo di lavoro che utilizzi la fiducia reciproca (che non arriva insieme alla nomina, ma si costruisce a fatica poco per volta) e la riflessività, cioè lo sforzo quotidiano a ragionare assieme evidenziando le eccellenze e lavorando sulle criticità del proprio agire come condizione strategica e formativa? Molto spesso ci è capitato di cogliere nei gruppi di lavoro più la logica della riunione di condominio che quella di un vero e proprio gruppo che si siede attorno al tavolo per esaminare dubbi e certezze, raccontandosi che idea di bambini e che idea di scuola sottende le proposte, le esperienze, gli allestimenti, i tempi, i modi della loro progettazione…

La quarta: perché nelle scuole dell’infanzia le insegnanti non hanno più l’obbligo della formazione? Se da una parte nella nuova legge (comma 181, lettera e, punto1.2) si fa esplicito riferimento alla qualificazione universitaria e alla formazione continua del personale dei servizi educativi per l’infanzia e della scuola dell’infanzia, dall’altra per molte persone continuare a studiare e a perfezionarsi sembra una perdita di tempo. Si è appena conclusa, in tutte le province emiliano-romagnole una importante fase sperimentale che ha impegnato un numero altissimo di servizi per la prima infanzia in una operazione prima di autovalutazione e successivamente di auto-etero valutazione. Entrambe queste esperienze sono state gestite in chiave formativa, sfruttando al massimo non soltanto l’occasione di ragionare sulla congruenza e sull’efficacia del proprio progetto pedagogico ed educativo, ma anche impegnandosi ad accogliere sguardi esterni, approcci sempre utili a conoscersi meglio e a fare meglio il proprio lavoro. Quando si potrà parlare di valutazione formativa nella scuola dell’infanzia? Quando si potrà puntare l’attenzione sul lavoro dell’adulto e non su quello dei bambini? Occorre mettere in movimento percorsi formativi, perché se è vero che in alcune regioni si è fino ad ora investito molto sulla prima infanzia (è molto il 30% degli aventi diritto?) e l’investimento in tal senso rappresenta, a detta anche di valenti economisti e da spesso inascoltati pedagogisti, una delle condizioni non solo per uscire dalla crisi, ma anche un investimento sul futuro e allora ci si spieghi perché si interrompono o si riducono i finanziamenti, si interrompono virtuose esperienze di costruzione e controllo formativo della qualità dei servizi.

La quinta: e se finalmente si mettesse mano allo 0-6 prevedendo fondi per estendere il servizio nido a tutti i bambini? Si può fare. Ci sono esempi validissimi di welfare in Europa. In alcuni paesi basta soltanto nascere per avere diritto ad un posto al nido: in Danimarca per esempio), contenere quindi i prezzi ed estendere il calendario di apertura a tutto l’anno. Le famiglie generalmente non lavorano 39 settimane su 52! Abbassare il rapporto numerico adulto/bambino contrastando quello che in alcune regioni fino ad ora virtuose, sembra invece si sia in animo di aumentare.

È sempre più urgente rivisitare gli aspetti portanti della continuità tra nido e scuola dell’infanzia non solo sulla carta, ma anche e soprattutto nelle pratiche professionali e nelle idee degli operatori, degli insegnanti soprattutto. I genitori dei bambini nati tra gennaio e la fine di marzo (i cosiddetti anticipatari) hanno ricevuto in questi giorni l’informazione circa la possibilità di iscrizione dei loro figli alla scuola dell’infanzia; spesso però nel momento in cui le famiglie si rivolgono alla scuola si sentono dire che sarebbe meglio per i loro figli fare ancora un anno al nido (o a casa) perché loro (i bambini) sono troppo piccoli, non si troverebbero bene e loro (le insegnanti) lo sconsigliano.

Ricordiamo che l’intervento nella fascia 0-6 non intercetta solamente le nuove generazioni, ma le famiglie che stanno educando le nuove generazioni. E sull’isolamento e le difficoltà genitoriali delle nuove famiglie molto si è detto. I servizi 0-6 sono quelli ai quali la famiglia si accosta per la prima volta nel corso della sua esperienza genitoriale, quelli con i quali, e grazie ai quali dovrebbe/potrebbe imparare come dare al proprio figlio contemporaneamente radici ed ali. Radici per condividere, avere fiducia, conoscere, rispettare, appartenere alla propria storia e al proprio contesto ed ali per staccarsene positivamente, in modo costruttivo.

Un’ultima annotazione di servizio. Stanno già arrivando nei servizi telefonate di genitori preoccupati. I loro figli non vogliono andare al nido o a scuola, al mattino piangono, alcuni rifiutano il cibo. Prima di imputare questi comportamenti a disastrose e crudeli situazioni istituzionali, riflettiamo un attimo e parliamone con calma, senza pre-giudicare e ricordiamo che forse anche a noi adulti ogni tanto verrebbe voglia di non andare in ufficio, al lavoro o comunque fuori casa. Perché non dovrebbero avere questo desiderio anche i bambini?

Maria Cristina Stradi

Coordinatrice pedagogica

 

Dopo il trauma la comunità di Pavullo risponde

 

Dal lunedì dell’arresto della maestra della scuola dell’infanzia la gente di Pavullo si interroga su come sia potuto capitare un tale evento: certamente l’organizzazione che avrebbe dovuto tutelare i bambini non ha funzionato, non è stata adeguata a rilevare e intervenire nella situazione problematica che si era verificata.

Dopo il primo stordimento dovuto alla sorpresa e al turbinio mediatico in cui tale evento ha gettato il paese, c’è stata una reazione concordata tra le istituzioni e i genitori delle scuole per aiutare tutti a ritrovare l’equilibrio e la serenità perduti.

Il Comune, la Direzione Didattica e la Neuropsichiatria infantile dell’AUSL di Pavullo hanno congiuntamente approntato un programma di azioni che sono state concordate e condivise con i rappresentanti dei genitori delle scuole dell’infanzia e che sono state attuate sin dalla settimana successiva. Senza essere direttamente responsabili dell’accaduto, il Comune e l’AUSL hanno immediatamente offerto alla Direzione Didattica la loro collaborazione per riportare tranquillità e fiducia nei bambini, nelle famiglie e nel personale della scuola.

Dal dialogo con i genitori, sia con i rappresentanti che nelle assemblee, si percepisce la preoccupazione per la tutela dei bambini ma anche la fiducia in molte insegnanti, costruita nella condivisione quotidiana della cura dei bambini. I genitori in genere condividono la necessità che gli insegnanti non rinuncino al loro intervento educativo, nel timore di venire accusati di esagerare nelle correzioni. In realtà i genitori ritengono che gli strumenti educativi utilizzati nella scuola siano adeguati. La difficoltà maggiore per molti di loro è quella di mantenere fiducia nell’organizzazione stessa, che non riesce a garantire la qualità o a intervenire tempestivamente in caso di difficoltà. Essi ritengono che i dirigenti non abbiano la capacità o la possibilità di efficacia negli interventi, trasferendo semplicemente i problemi da una scuola all’altra. Ciò provoca e rende necessario il controllo diretto dei genitori (ad esempio attraverso telecamere) e il coinvolgimento di enti terzi, quali le forze dell’ordine.

Molti genitori hanno espresso apprezzamento per le azioni attivate per riportare la fiducia, perché vogliono proteggere i loro bambini dallo stress e garantire loro un clima sereno per godere al meglio dell’esperienza scolastica.

Le azioni approntate dalla comunità coinvolgono direttamente tutti i bambini delle sei sezioni della scuola in cui è successo il fatto; tutti i genitori di tutte le quattro scuole dell’infanzia statali di Pavullo perché questa esperienza ha mosso emotivamente, creando insicurezza e preoccupazione in tutti; tutti gli operatori scolastici, in primis quelli della scuola coinvolta ma anche tutti gli altri, per riflettere e prevenire.

Per i bambini che presentano segnali di stress da trauma è stato messo a disposizione un accesso immediato al supporto psicologico individuale presso la NPIA tramite la richiesta dei pediatri. Per i tutti i bambini della scuola coinvolta è stato organizzato un intervento a scuola per la rielaborazione dei vissuti attraverso la narrazione e il disegno, in collaborazione tra scuola, coordinamento pedagogico, psicologi dello Sportello d’ascolto e psicologi della NPIA.

Per i genitori si sono realizzati in ogni scuola dell’infanzia incontri per la riflessione, l’ascolto, la condivisione delle strategie di supporto ai bambini e delle azioni messe in campo. È stato allargato anche ai genitori della scuola dell’infanzia lo Sportello d’ascolto psicologico già attivo per i genitori delle scuole primarie, per chi abbia necessità di colloqui personali per meglio aiutare i propri figli. Sono poi state accolte alcune richieste dei genitori di confronto a gruppi con la psicologa, ad esempio sulle modalità di comunicazione con i propri bambini quando succedono eventi traumatici, per aiutare l’emergere del disagio e non aggiungere loro ulteriore stress. Per gli operatori di ciascuna delle scuole dell’infanzia sono stati attivati incontri con gli psicologi della NPIA per la rielaborazione dei vissuti reattivi e il riconoscimento precoce dei segnali di disagio, per mettere insegnanti e collaboratori in condizione di intercettare comportamenti a rischio prima che essi abbiano delle conseguenze per i bambini affidati loro. Per tutti gli insegnanti si svolgerà a breve un incontro sugli aspetti giuridici legati alla loro professione. Inoltre da marzo viene riattivato a carico delle amministrazioni comunali il progetto di coordinamento pedagogico nelle scuole dell’infanzia statale, terminato a giugno scorso nella sperimentazione quinquennale finanziata dalla Regione e dai Comuni su tutto il distretto. Il coordinatore pedagogico sosterrà il gruppo di lavoro dei docenti e la riorganizzazione collegiale di alcuni momenti della quotidianità scolastica, come ad esempio il momento del riposo. Con il coordinatore si progetteranno poi altri interventi di tipo strutturale per mantenere la credibilità e la fiducia della qualità della scuola: la cura della relazione scuola-famiglia, con il coinvolgimento dei rappresentanti dei genitori; l’osservazione e la valutazione della relazione insegnantebambino, anche attraverso strumenti di autovalutazione; la trasparenza della documentazione; le attività di aggiornamento; la supervisione.

Anna Pelloni

Coordinatrice pedagogica nei servizi dell’infanzia, Comune di Pavullo (MO)

 

 

 

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