Disobbedire, responsabilmente.

 

Chi lavora professionalmente in campo educativo, nei nidi e nelle scuole dell’infanzia (ma anche successivamente) ha il compito di condurre i bambini e le bambine su campi d’esperienza che stimolano le capacità senso-motorie, la manualità, l’espressività, in altre parole il naturale bisogno infantile di essere attivi nei confronti della realtà, di mettersi alla prova.

Sempre più spesso questo bisogno, che costituisce la base di sviluppo del pensiero e del linguaggio, di conoscenze e apprendimenti, trova ostacoli e limitazioni a vari livelli. Uno è quello della insicurezza di educatrici e insegnanti che temono di perdere il controllo su bambini lasciati liberi di muoversi in un ambiente esterno, per quanto “sicuro” come può essere il giardino di un nido o di una scuola dell’infanzia.

Succede infatti di vedere che questo spazio, a volte ampio e articolato nella sua fisionomia, sia recintato in porzioni che lo chiudono come per contenere i bambini dentro confini ristretti, evidentemente ritenuti più rassicuranti.

Un secondo livello riguarda i genitori: molti vivono il concetto di protezione del bambino in termini assoluti e non relativi come sarebbe normale. Essi non accettano la possibilità che un bambino possa farsi male svolgendo normali attività al nido o a scuola: per quanto l’attenzione alla prevenzione primaria sia doverosa da parte di tutti coloro che lavorano con l’infanzia, incidenti possono accadere. Pare che oggi sia insopportabile per un genitore andare a prendere il proprio bambino a scuola o al nido sapendo che si è fatto male giocando: una piccola ferita, un livido… In passato (un passato prossimo) era normale che nelle gambe e nelle braccia dei bambini ci fossero i segni di esperienze “ruvide”. Il dolore fisico causato dai giochi di azione motoria era, per certi aspetti “formativo”: non a caso la risposta immediata dell’adulto, constatata la non gravità della cosa, era: “…così impari”.

Se colleghiamo il primo livello col secondo, otteniamo una miscela iperprotettiva micidiale, che può portare i bambini a vedersi espropriati di una vasta gamma di esperienze necessarie alla loro formazione. Genitori che chiedono a educatrici e insegnanti il massimo di sicurezza per i bambini, ritenendo persino che lo stare abitualmente all’aperto sia più facile causa di malattie (quando la medicina pediatrica afferma esattamente il contrario); educatrici che per assecondare i genitori e per non correre rischi sulla incolumità dei bambini li tengono prevalentemente chiusi in sezione a svolgere per un tempo lungo attività seduti. Mi è capitato di vedere sezioni di scuola dell’infanzia strutturate come piccole aule scolastiche.

C’è poi un terzo livello di limitazioni, posto dalle normative di sicurezza che hanno nei tecnici di AUSL ed enti preposti i loro guardiani. Togliere le sabbiere dai giardini di nidi e scuole dell’infanzia, perché potrebbero essere portatrici di malattie, significa espropriare i bambini di un’esperienza che ogni educatrice e insegnante dovrebbe caparbiamente rivendicare come necessaria all’attività educativa. Si potrebbero fare molti altri esempi di divieti imposti su attività importanti per i bambini nelle istituzioni educative (la cucina, la presenza di piccoli animali, l’uso di determinate attrezzature all’esterno ecc.). Si può responsabilmente disobbedire a questi divieti? Io credo di sì, ovviamente laddove troviamo educatrici e insegnanti che, responsabilmente, non hanno paura. È molto facile vietare, togliere, negare; più impegnativo è trovare il modo di fare le esperienze che si ritengono importanti per i bambini secondo modalità che garantiscano igiene e sicurezza adeguate. Un educatore non è al servizio dei tecnici e degli uffici sulla sicurezza, ma ha un mandato pubblico per l’educazione dell’infanzia, e se ritiene, motivandolo, che sia importate per i suoi bambini disporre di una sabbiera, fare attività di cucina e produrre dei semplici alimenti, dovrebbe poterlo fare. E i tecnici dovrebbero indicare le modalità adeguate sul paino dell’igiene e della sicurezza per fare quell’attività. Se loro proibiscono, io posso decidere di disobbedire, appellandomi alla mia professionalità al servizio dell’educazione. Una volta si chiamava “obiezione di coscienza”. Parole grosse, che richiedono coraggio e assunzione di responsabilità. Ma quello di educatore non è un mestiere facile, né comodo, se si ha scienza e coscienza pedagogica per farlo.

 

Roberto Farné

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