La Scuola di Barbiana non va presa “alla lettera”

 

Roberto Farné

 

Quest’anno ricorre il cinquantenario dall’uscita di Lettera a una professoressa, autore del libro è la Scuola di Barbiana, di cui don Lorenzo Milani è stato maestro e animatore, morto lo stesso anno dell’uscita del libro. Conservo copia di quella prima edizione, piena di sottolineature, annotazioni a margine delle pagine, accumulatesi nel corso di varie letture in tempi diversi. Per l’occasione, e per volerla ricordare sulla nostra rivista, Andrea Canevaro apre e chiude questo numero di Infanzia.

Quel libro e l’esperienza da cui esce non si riferiscono all’ambito educativo dell’infanzia 0-6; il messaggio di Barbiana ha un valore che non è riferibile a uno specifico ordine scolastico, ma li comprende tutti perché tocca quelli che possiamo definire i “fondamentali” dell’azione educativa e del suo pensiero. Ciò che vi è scritto ha una tale forza icastica e radicale sul piano pedagogico ed etico che può persino dare fastidio a chi, non senza qualche ragione, pensa che la realtà di una “buona scuola” non sia assimilabile a quella professata nella famosa “Lettera”.  Eppure, e qui sta il punto, le parole di quel libro sono parole di verità sulla scuola e sulla pedagogia: lo erano allora e lo sono ancora oggi. E la verità il più delle volte non è morbida ma dura, soprattutto ha la forza dell’evidenza.

Solo una scuola come quella di Barbiana, totalmente libera, gestita da un prete emarginato in una parrocchia ai margini, e perciò totalmente libero, poteva permettersi di praticare e professare quella pedagogia. Nella sua radicale verità, Barbiana è destinata a rimanere un fatto unico nella storia della nostra scuola, nata e morta col suo maestro-priore. Ed è proprio questa sua unicità che continua a provocare, nel senso autentico della parola latina che vuol dire chiamare fuori, sfidare. Chi? L’istituzione scolastica e chi la governa al centro come in periferia, ogni singolo insegnante, le famiglie, i soggetti stessi che vanno a scuola, fin dall’infanzia, ed è lì che inizia la loro “educazione civica”, che poi è l’educazione che conta di più, anche se nessuno gliela insegna.

Ogni questione fra chi si sente più fedele di altri nel portare/interpretare il messaggio di don Milani, allievi della prima ora o della seconda, testimoni più o meno diretti ecc. diventa stucchevole ed è francamente inutile. La memoria di un’esperienza educativa, come quella sulla Scuola di Barbiana, è il risultato di un lavoro collettivo che funziona se ha un fine comune, si costruisce nel dialogo e nel confronto. Questo vale anche per chi fa scuola e usa don Milani come una sorta di “santino pedagogico” da cui ricevere taumaturgiche benedizioni. La Scuola di Barbiana è per tutti e al tempo stesso è di nessuno, nel senso che nessuno può pensare di ricavarne formule pedagogiche replicabili e applicabili, ma tutti possono riferirsi alle verità di quella scuola come a uno dei più potenti dispositivi critici (scientifici) di cui la pedagogia scolastica disponga per valutare il proprio lavoro.

Apro il mio Lettera a una professoressa: prima che il testo inizi c’è una sorta di prefazione dove si dice che si tratta di un libro scritto non per gli insegnanti, ma per i genitori, che gli autori sono otto ragazzi della scuola di Barbiana. Essi ringraziano prima di tutti «il nostro priore che ci ha educati, ci ha insegnato le regole dell’arte e ha diretto i lavori». E i ringraziamenti continuano rivolti ad amici e genitori «per la semplificazione del testo» e poi per la raccolta dei dati: insegnanti, direttori, presidi, funzionari del Ministero e del’ISTAT ecc. La Scuola di Barbiana dunque ha potuto scrivere Lettera a una professoressa grazie anche alla scuola pubblica. Dopo 50 anni la scuola pubblica dovrebbe ringraziare a sua volta la Scuola di Barbiana, ringraziamenti non formali ovviamente, se ritiene di aver imparato qualcosa e lo può dimostrare.

 

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Infanzia, n. 4 ottobre-dicembre 2017

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