A proposito di infanzia, educazione e Gay Pride

 

Lucia Balduzzi, Roberto Farné

 

Succede che in un servizio educativo per l’infanzia del Comune di Casalecchio, gestito da una importante e accreditata cooperativa, nel mese di giugno le educatrici abbiano deciso di festeggiare con i bambini il Gay Pride, comunicandolo attraverso un cartellone che si chiude con lo slogan “Viva l’Amore”. Per l’occasione hanno letto alcuni libri illustrati che, in forma di racconto e di fiaba adatto all’età dei bambini toccano il tema delle famiglie formate da genitori dello stesso sesso, comunque famiglie per quei bambini e bambine che vivono questa realtà. Ne nasce un putiferio: interrogazione parlamentare, articoli sui giornali, prese di posizione da parte della Curia, di genitori, imbarazzo da parte dei politici locali, dei dirigenti della cooperativa. Difesa a oltranza delle educatrici da parte della CGIL e delle “Famiglie Arcobaleno”, e della rivista Il Mulino (18/7/2018, on line), dove la sociologa Giulia Selmi non esita a definire “omofobi” coloro che sollevano qualche ragionevole perplessità sulla gestione educativa di un tema che lei stessa definisce “sensibile”. E proprio perché è tale richiede qualche precauzione quando, dalla sfera della libera manifestazione delle idee e del dibattito politico-culturale, si entra nel campo dell’educazione dell’infanzia, quella 0-6 in particolare. Qui, tocca dirlo, la questione diventa di pertinenza e competenza pedagogica, su cui ovviamente tutti (sociologi compresi) possono dire la loro, ma con qualche cautela, magari interloquendo con chi professionalmente si occupa di educazione dell’infanzia. La nostra rivista lo fa dal 1973 e al tema delle famiglie ha dedicato qualche attenzione…

Posto che il giusto obiettivo è introdurre i bambini, fin dall’infanzia, a una visione non omofoba del concetto di famiglia, la domanda è: ha senso che il Gay Pride diventi un “pretesto pedagogico” per delle educatrici che lavorano con bambini di 3-4 anni per toccare quel tema? La normale lettura con i bambini dei racconti, che è stata fatta, pensiamo che non avrebbe suscitato alcun clamore mediatico se le “ingenue” educatrici non l’avessero collegata al Gay Pride. Così facendo hanno creato un effetto controproducente rispetto alle buone intenzioni del loro lavoro, offrendo un assist formidabile a tutti coloro (più o meno omofobi) che, tocca dirlo, non aspettano altro. Di lì a poco, come se non bastasse, atti di vandalismo nei confronti di quella struttura fanno sorgere la “legittima suspicione” di un collegamento.

La pedagogia insegna (e chi si prepara al mestiere educativo dovrebbe imparare) che su certi temi sensibili vi è un confine molto sottile fra educazione e propaganda. L’abilità, la competenza di chi fa educazione sta nel non cadere in certe trappole. Abilità e competenza, le due cose insieme. È possibile che il progetto pedagogico dell’Ente che, d’accordo col Comune, gestisce quel servizio, contempli anche l’educazione ai temi del genere, e che dunque non si tratti di una iniziativa improvvisata delle educatrici. Bene, ma sapendo che è un tema sensibile, allora va svolto con adeguata sensibilità, con l’accortezza di non cascare in certe trappole, come quella di alludere esplicitamente al Gay Pride.

In educazione la forma è contenuto, i modi con cui si decide di fare una cosa (giusta), le mediazioni e le condizioni sono importanti quanto la cosa stessa. L’educazione è una “sporca faccenda”, scriveva Riccardo Massa, uno dei più brillanti pedagogisti italiani, che troppo presto ci ha lasciato. Chi fa questo mestiere non può permettersi il lusso di fare “l’anima bella”, che difende certe idee e certi fatti “a prescindere”. La problematicità, il dubbio, la mediazione, l’analisi del contesto in campo educativo sono prerogative indispensabili. Ciò non vuol dire astenersi dal fare una cosa giusta, ma farla nelle condizioni migliori (per quanto è possibile) per farla bene. Chi difende in maniera baldanzosa e tracotante le educatrici in questione, in realtà si preoccupa di difendere il Gay Pride, che va bene, ma è un’altra cosa e non aiuta quelle educatrici nel loro quotidiano e difficile lavoro. Loro hanno cercato di affrontare con dei bambini di scuola dell’infanzia (l’età ha la sua importanza) questo tema sensibile, e hanno commesso un errore di cui se sono professionalmente accorte, si sono rese conto. In educazione succede di sbagliare, riconoscerlo dovrebbe essere una buona pratica (non solo) pedagogica, non una condanna.

 

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Infanzia, n. 3 luglio-settembre 2018

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