I bambini di Lodi e "Il processo" di Kafka

 

Lucia Balduzzi

 

Ai tempi della frequentazione della scuola superiore la mia prof.ssa di lettere forniva ogni anno a noi studenti una lista di volumi, prevalentemente romanzi classici del Novecento, da leggere nel corso delle vacanze estive. La lista era davvero nutrita di titoli molto diversi fra loro: il Mondo Nuovo di Huxley, La Peste di Camus, Uomini e topi di J. Steinbeck, I Duellanti di Conrad, La fattoria degli animali di Orwell sono solo alcuni dei titoli che ricordo di quell’elenco di quattro pagine fitte di storie che ho incontrato, anno dopo anno, nel corso della mia tarda adolescenza.

Fra questi un romanzo in particolare mi colpì più degli altri: Il processo di Franz Kafka. Romanzo incompiuto e pubblicato nel 1925, racconta le vicende di un uomo comune, impiegato di un istituto bancario, il sig. Josef K., che una mattina si scopre imputato in un processo per un capo d’accusa del quale, per tutta l’opera, non verrà mai a conoscenza. Inizialmente Josef K. tenta di affrontare la macchina processuale nella quale si trova imprigionato con il pragmatismo che gli deriva dalla propria posizione lavorativa, certo che si tratti di un errore giudiziario e sicuro della propria innocenza. Via via che il testo procede però si comprende che egli è rimasto imprigionato all’interno di una inarrestabile macchina burocratica. Infatti, come gli comunica uno dei tanti interlocutori con cui entra in contatto nel tentativo di risolvere la propria situazione – il pittore Titorelli – quando il tribunale si avvia difficilmente recede dalle proprie accuse poiché nessuno è davvero mai innocente. Il romanzo si conclude con la condanna a morte dell’imputato il quale, morendo, si sente addosso la vergogna di una colpa inconsapevole e non commessa. Il processo è un romanzo che pone al centro della narrazione l’indifferenza ma soprattutto la passiva accettazione da parte di tutti i personaggi dell’opera, dell’ineluttabilità di una giustizia che segue solo ed esclusivamente le proprie logiche autoreferenziali e insondabili, di cui né imputato né giustizieri sono realmente informati e consapevoli.

I genitori stranieri delle bambine e dei bambini di Lodi devono essersi sentiti inizialmente come Josef K.: si saranno chiesti se davvero l’amministrazione comunale stava chiedendo loro certificati che comprovassero il fatto di avere o non avere proprietà nei loro paesi d’origine, documenti magari inesistenti, certificati obbiettivamente difficili da recuperare a centinaia (migliaia) di chilometri dalla sede degli uffici competenti, se esistenti. I fatti sono ampiamenti noti, 409 famiglie si vedono costrette, per accedere ad alcuni servizi rivolti all’infanzia, a pagare come se appartenessero alla fascia dei più abbienti. Lodi diventa un caso, la cittadinanza si attiva e tramite una raccolta di fondi i bambini possono continuare ad usufruire di mensa e trasporto; almeno per quest’anno, poiché non risulta cambiata sostanzialmente la procedura di accesso ai servizi.

Ciò che più mi colpì maggiormente, leggendo Il processo, fu l’effetto che le accuse e l’insensatezza della burocrazia avevano, a livello inconscio, sulla psiche di Josef K. il quale via via matura un senso di colpa talmente radicato da percepire, alla fine, la propria condanna come naturale ed inevitabile. Naturale e inevitabile come l’idea che un regolamento si fondi su un principio assolutamente razionale e condivisibile, l’accesso a contribuzioni parametrate alla condizione economica dei cittadini che utilizzano un servizio, e che sia sufficiente presentare una documentazione appropriata per fruire dell’opportunità offerta. Naturale e inevitabile come il fatto che se non presenti la documentazione richiesta non puoi accedere alla procedura, perdi il diritto alla contribuzione parametrata. Il fatto che non sia possibile per Josef K. capire quale sia l’imputazione, come costruire la propria memoria difensiva, non è un problema del sistema, che lascia che cresca dentro di lui un senso di inadeguatezza e colpa. È sufficiente riguardarsi il servizio di Micaela Farocco proposto nel programma “Piazza Pulita” andato in onda su La 7, il 12 ottobre per cercare di comprendere se il sentimento che cresce nel profondo dei bambini e delle bambine intervistate e dei loro famigliari somigli in qualche modo a quello di Josef K. e, sulla base di quella risposta, cominciare ad assumerci come educatori e pedagogisti, maggiori responsabilità.

 

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Infanzia, n. 4 ottobre-dicembre 2018

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