Malaguzzi e gli altri, la voglia di fare e di studiare

 

Roberto Farné

 

Venticinque anni fa, era il 1994, ci lasciava Loris Malaguzzi, e il prossimo anno sarà il centenario della sua nascita. C’è da aspettarsi che, prossimamente, ci sia attenzione nei confronti di una delle figure più significative della pedagogia italiana del Novecento, ampiamente conosciuta anche fuori dai nostri confini. Insieme a Malaguzzi, il 2020 sarà anche il centenario della nascita di un altro protagonista della cultura pedagogica italiana e di livello internazionale: Gianni Rodari. Peraltro, è appena il caso di ricordarlo, la sua famosa Grammatica della fantasia fu l’esito di un laboratorio condotto con i bambini delle scuole dell’infanzia e primarie a Reggio Emilia, dove il pedagogista era Loris Malaguzzi. Avremo modo, nella nostra rivista, di dedicare la giusta attenzione ad entrambi.

Queste figure e queste date, come in un gioco di ricorrenze e combinazioni, mi portano a pensare a chi, oltre a loro, gode di fama internazionale tra i protagonisti italiani che si sono dedicati all’educazione. Ne indicherei altri tre: don Bosco, Maria Montessori, don Milani. Abbiamo così una compagine di cinque personaggi, preti (cattolici) e laici, non solo per una artificiosa “par condicio”, ma perché, emblematicamente, rispecchiano un’identità che storicamente (faticosamente) ha caratterizzato il nostro Paese.

C’è un’altra caratteristica che emerge scorrendo i profili di questi personaggi: il loro alto contributo alla cultura pedagogica lo hanno dato facendo educazione, per dirla più volgarmente “sporcandosi le mani” nel lavoro educativo. Le teorie a cui hanno legato il proprio nome: il sistema preventivo per l’educazione di Don Bosco, il metodo della pedagogia scientifica della Montessori, i 100 linguaggi dei bambini di Malaguzzi, la grammatica della fantasia di Rodari, la pedagogia critica di don Milani, sono tutte l’esito di “laboratori pedagogici”. I laboratori scientifici, come si sa, sono incubatori di idee, luoghi deputati alla ricerca e alla sperimentazione sulla base di ipotesi e di pratiche che, verificate e documentate, diffondono i loro saperi che, a loro volta applicati, porteranno a ulteriori verifiche, teorie e così via. Un processo scientifico che con paradigmi e modalità specifici, vale per l’educazione. E allora l’Università…? Quelle persone che abbiamo nominato hanno tutte un tratto comune: nessuno di loro stava dentro l’Università. Erano persone che avevano studiato, anche frequentando l’Università, e non smisero di studiare. Ma il loro sapere pedagogico, la “scientificità” del loro lavoro se così possiamo definirla, si è sviluppata nei veri laboratori in cui le scienze dell’educazione si esercitano: la scuola e più in generale le realtà dove si fa educazione.

Dunque, l’Università non serve nella formazione di chi per mestiere si occuperà di educazione? Tutt’altro, l’Università serve moltissimo, a una condizione: quella di mettere alla prova gli allievi, non solo rispetto ai contenuti da studiare, che ci sono, come in ogni importante professione, ma anche nelle situazioni educative dove agire e sviluppare pensiero nell’azione. Un’Università i cui “laboratori” di pedagogia e di didattica siano davvero tali, non luoghi dove limitarsi ad acquisire “crediti di tirocinio”. Penso a un’Università che per le professioni educative sia basata sui fondamentali, che sarebbero in realtà meno (e in parte anche diversi) rispetto a tutto ciò che attualmente prevedono quei piani di studio. Chi esce con una laurea, dopo aver messo temporaneamente fra parentesi quei saperi per dedicarsi al mestiere di insegnante o di educatore, dovrebbe sentire il bisogno di tornare ai saperi, nell’Università, per confrontarsi sul proprio lavoro, renderlo professionalmente (scientificamente) migliore. In questo l’università avrebbe un compito importante: alimentare la voglia di studiare… soprattutto dopo.

 

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Infanzia, n. 2 aprile-giugno 2019

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