Lucia Balduzzi

Ordinario in Didattica e Pedagogia Speciale, Università di Bologna

 

Il tema dell’educazione di genere nelle scuole e nei servizi per l’Infanzia è entrato, dopo anni di latenza, prepotentemente sulla scena del dibattito anche pedagogico, supportato spesso più da approcci generalisti e superficiali che da dati e riflessioni scientifiche e di ‘addetti ai lavori’ e con uno slittamento di focalizzazione.

Infatti, a partire dagli anni Ottanta, il dibattito sulle tematiche di genere era strettamente legato a quello dell’equità dei percorsi educativi ed istruttivi e, non a caso, riguardava maggiormente i contesti della scolarizzazione obbligatoria. In questa prospettiva, il genere rappresenta una variabile che, insieme a quelle legate ai fattori socioeconomici, risultano influenzare gli esiti dei processi di istruzione. Nell’ambito degli studi sulla giustizia ed equità scolastica, i dati delle ricerche di matrice socio-antropologica incrociati a quelli delle rilevazioni INVALSI e PISA, soprattutto a partire dal 2000, erano e sono utili a comprendere in che modo la variabile di genere influenzi in primo luogo il successo scolastico e, specificatamente, l’acquisizione di buoni risultati nelle diverse aree oggetto di valutazione (competenze linguistiche, matematiche, scientifiche, …). In questi studi l’elemento centrale è il collegamento che viene esplicitamente realizzato fra equità dei sistemi educativi e qualità degli esiti dei processi di insegnamento-apprendimento, all’interno di un quadro concettuale di riferimento che riconosce come più equi quei sistemi che non solo garantiscono un accesso universale ai processi di istruzione, ma che riescono a supportare l’acquisizione di standard medio-alti di competenze in uscita.

Una prospettiva differente è quella che caratterizza gli studi sul genere che hanno come oggetto l’acquisizione dell’identità di genere, ovvero quel processo socialmente co-costruito che, per dirla con le parole di Rossella Ghigi, rappresenta il “prodotto di pratiche e di immaginari che a sua volta indirizza gli individui offrendo loro una lettura di sé e del mondo” (Ghigi, 2019, p. 16). In questo senso non si tratta di ragionare rispetto a che cosa sia essere uomini o donne come dato geneticamente predeterminato (cioè l’appartenenza ad un sesso), quanto piuttosto rispetto a che cosa significhi essere maschi o femmine, uomini o donne. Mentre l’aspetto biologico è facilmente risolvibile tramite un’analisi cromosomica, l’aspetto sociale risulta ovviamente più complesso, poiché esso rappresenta il risultato di un dinamico processo di negoziazioni e ri-significazioni in cui tratti individuali dialogano e si confrontano con le rappresentazioni di cui sono portatori non solo i soggetti che interagiscono con i bambini e le bambine – genitori, nonni, educatori, adulti di riferimento in generale – ma anche tutti gli artefatti culturali che arredano l’ambiente materiale di vita dei più piccoli. Questo secondo ambito di ricerca, sicuramente più ‘sensibile’ del primo, è quello che viene maggiormente messo in discussione oggi nel comparto della prima infanzia, soprattutto da quando sotto la parola Gender si riconduce ad un’unica prospettiva (tra l’altro non chiaramente identificabile) quello che invece rappresenta un panorama di studi e ricerche che da oltre cinquant’anni sviluppa posizioni e direzioni molto diversificate fra loro. Sotto accusa è la prospettiva che confonde la possibilità che si possa parlare di educazione di genere, in modi diversi e con approcci anche distanti fra loro, con un’educazione che mira di fatto alla “scomparsa” del genere attraverso la negazione di tutte le specificità e differenze legate al modo di rappresentarsi e costruire la propria identità da parte dei bambini e delle bambine, con la conseguente richiesta che di genere nella scuola ma anche nei servizi dell’infanzia non se ne parli affatto. Scelta, quest’ultima, a nostro avviso rischiosa e deleteria, poiché foriera del rischio di alimentare stereotipie e pregiudizi peraltro ancora ben presenti nella nostra società.

I due approcci di studio del tema del genere in educazione, quello legato sull’equità e quello sull’identità, non sono slegati tra loro, ma fortemente correlati: non per nulla la variabile statistica è quella definita ‘genere’ e non ‘sesso’. Garantire la possibilità, anzi accettare la necessità, di ragionare e intervenire in termini educativi sulle questioni legate al genere in campo educativo è stata la ragione che ha portato il comitato scientifico della rivista Infanzia ad organizzare, il 1° giugno 2019, un seminario di studi dal titolo “Quale genere di genere. Educare al genere nei servizi e nelle scuole dell’infanzia” da cui è originato il presente FOCUS. L’idea, a nostro avviso pienamente realizzata, era quella di costruire uno spazio di confronto professionale e culturale che potesse fare chiarezza all’interno dei dibattiti sul tema e dare fondamento scientifico a un progetto educativo per l’infanzia, consapevole e capace di orientare le proposte educative agite all’interno dei servizi e delle scuole dell’infanzia, nella consapevolezza che i significati di genere rivestono un ruolo troppo importante nello sviluppo di bambini e bambine per essere lasciato al caso o all’improvvisazione.

 

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Infanzia, n. 1 gennaio-marzo 2020

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