A cura di Alessandra Farneti

Già professoressa ordinaria di Psicologia dello Sviluppo, Libera Università di Bolzano, Facoltà di Scienze della Formazione

 

e Piergiorgio Battistelli

Già professore ordinario di Psicologia generale, Università di Bologna, DAMS 

 

“…Casa non è solo un luogo, può essere un concetto, può essere un cuore, può essere un abbraccio, una famiglia, quella biologica, quella costruita. Casa può essere ancora, a volte zavorra, di sicuro è il mare, anche dentro una bottiglia, di sicuro è il porto, sicuro, fermo anche davanti allo sbattere delle onde che si infrangono sulle barche, Casa è da cui tutto parte, e a cui tutto ritorna…” (Pierdavide Carone).

 

La scelta di un focus sul tema della casa è dovuta anche all’importanza crescente che in questi anni di pandemia ha assunto la vita domestica. Bambini e genitori chiusi in lockdown per mesi, hanno riscoperto le potenzialità dell’ambiente domestico ma hanno anche sentito la costrizione e affrontato le difficoltà di una convivenza forzata e ininterrotta (Farné, 2021).

I bambini si sono dovuti adattare e in molti casi non hanno avuto neppure modo di uscire all’aperto. Tuttavia, per guardare al bicchiere mezzo pieno, la lunga permanenza in casa ha permesso di rivalutare molte attività e di godersi tempi lunghi e più rilassanti (Farneti, 2021).

Il titolo che ho scelto per questo focus è la risposta di una bimba di otto anni alla mia domanda “Che cos’è per te la casa?”

In quelle parole è contenuto il significato più profondo di casa, che è un luogo non solo fisico ma identitario, a cui sentiamo di appartenere (Sego, 2010).

Casa viene dal greco e dal latino (oikos in greco e casa in latino) e significava capanna, copertura, abitazione povera. Lentamente nei secoli il vocabolo ha assunto una valenza diversa, indicando ogni tipo di abitazione.

È interessante notare la distinzione fra home e house nella lingua inglese, dove con home si indicano i rapporti familiari e con house gli spazi fisici della casa.

In italiano il termine casa comprende sia gli spazi, sia i rapporti e bisogna sottolineare che nei secoli essi sono mutati in modo drastico.

La storia della casa è complessa e difficile da ricostruire ma non è solo storia di edifici perché essi esprimono credenze, abitudini, culture diverse. Dalla domus romana alle case medioevali, spesso aperte a tutti e sede di attività artigianali, si è passati pian piano ad abitazioni singole. Palazzi, castelli, piccole case contadine, sontuosi appartamenti, ville e villette, costituiscono un insieme variegato, che esprime la divisione in classi sociali e un diverso modo di vivere.

Oggi abbiamo molte situazioni, a seconda del luogo (città o campagna), delle possibilità economiche e del lavoro svolto. Purtroppo ci sono anche tanti che non hanno una casa e vivono in abitazioni di fortuna o per strada. Le baraccopoli dei profughi sfruttati per lavorare la terra o i campi nomadi ne sono un tragico esempio; basti pensare che solo il 20% della popolazione mondiale ha una casa! Il recente film Nomadland mostra la situazione vissuta da molti americani, costretti a vivere nei camper o in abitazioni di fortuna.

La trasformazione da famiglia allargata a famiglia nucleare, inoltre, ha portato ad una riduzione degli spazi e la maggior parte della gente vive in case di piccole dimensioni, in grandi condomini.

In Italia abbiamo la percentuale più alta di possessori di case e fin da quando si cantava “Se potessi avere mille lire al mese… Una casettina in periferia…” il sogno di molti è stato ed è quello di avere una casa propria.

La nostra casa è costituita da un insieme di spazi e di oggetti che ne fanno il nostro posto e ci accompagnano anno dopo anno, nella quotidianità più intima: la casa è il divano o la poltrona comoda che ci accolgono e ci abbracciano quando siamo stanchi; la casa è la nostra libreria, dove vivono idee e cultura, la casa è la tovaglia che mettiamo in tavola, la casa è quegli oggetti che ci ricordano viaggi o circostanze particolari; la casa è il nostro letto, dove riposiamo e i nostri armadi, dove abbiamo riposto abiti nuovi e vecchi. È difficile credere che quelle cose siano solo oggetti di conoscenza, dotati di proprietà fisiche ma di nessuna connotazione affettiva. Una casa vuota non può essere una casa ma solo lo scheletro di una casa.

Ma la casa ha anche una struttura, un’organizzazione degli spazi e delle stanze che gli architetti hanno pensato in funzione di chi l’avrebbe abitata.

Possiamo dire, quindi che sulla casa s’investono sentimenti e sogni e che essa coincide, appunto, col nostro posto, quello in cui rifugiarsi, chiudendo fuori il mondo.

Le nuove tecnologie hanno fatto sì che il mondo, anche se materialmente fuori dalle mura domestiche, entri invece prepotentemente nella quotidianità attraverso cellulari, tablet, computer, televisione. Soprattutto i ragazzi, ma anche i bambini ormai, stanno ore in collegamento con altri attraverso i social, con le conseguenze che ben conosciamo.

Ci sono poi fenomeni come l’hikikomori, che, letteralmente in giapponese significa stare in disparte, staccarsi. Scoperta diversi anni fa in Giappone, questa sindrome è ormai diffusa in tutto il mondo occidentale: la persona scappa fisicamente dalla vita sociale e si auto-isola, mantenendo rapporti solo attraverso internet. L’isolamento può durare anche anni e a volte è così totale che i genitori sono costretti a portare il cibo nella stanza del figlio, che si rifiuta di uscire. La casa diventa una protezione, un vero e proprio guscio, che permette di costruirsi un’identità puramente astratta e telematica, che non espone allo sguardo e al contatto con gli altri. A pensarci bene è un bel paradosso: il massimo dell’isolamento prodotto dal massimo della comunicazione. C’è qualcosa da capire meglio.

È anche curioso notare che le prime interpretazioni date dai genitori giapponesi furono che questo isolamento era reso possibile dalla occidentalizzazione delle case che, in passato, non avevano altro che pareti mobili e non permettevano l’isolamento!

Sulla casa e sulle sue implicazioni sociologiche, economiche, storiche, e filosofiche, si è scritto tanto e ci sono testi molto interessanti che mostrano come siano mutate l’idea, la progettazione e la realizzazione delle case nel corso dei secoli, ma sono pochi gli studi e le riflessioni su come l’ambiente domestico possa essere percepito dai bambini e come la sua struttura, gli oggetti che vi sono contenuti, la distribuzione degli spazi, possano avere un notevole peso sullo sviluppo cognitivo e affettivo (Sarti, 1999; Cantatore, 2015; Coccia, 2021).

In una prospettiva psicologica la casa può assumere tanti significati, sia cognitivi che affettivi, a seconda che si osservino l’adattamento del bambino all’ambiente, le sue capacità spazio-temporali, la denominazione e l’uso corretto degli oggetti, oppure si osservi invece il significato simbolico che il bambino attribuisce alla propria casa.

Battistelli e Scalembra (1995) e Battistelli (1998), per esempio, hanno studiato le dinamiche intra-familiari usando una “casetta”, di legno compensato, scoperta sopra e articolata nelle stanze canoniche (camera dei genitori, dei bambini, bagno, cucina ecc.) e tre bamboline (padre, madre, bambino/a). Con questo strumento (lasciato in eredità al Dipartimento di Psicologia di Bologna) era sorprendentemente facile evidenziare, nelle narrazioni prodotte, le emozioni ed i vissuti dei bambini nelle relazioni familiari. Emozioni e vissuti riferibili alle dinamiche ipotizzate da tanta letteratura psicologica: l’attaccamento esclusivo alla mamma, la relazione e l’ambivalenza verso la figura paterna, il superamento, con l’età, di questa relazione diadica e l’elaborazione della relazione triadica ed il conseguente esito maturativo. Il teatro di queste vicende, che, come sappiamo, hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro, era proprio la “casetta”, con i suoi spazi fisici e con quelli affettivi simbolizzati.

Possiamo inoltre prendere in considerazione lo spazio semantico che presumibilmente (ma sarebbe molto interessante farne una rilevazione empirica, che lasciamo ai giovani ricercatori) si organizza attorno al termine casa: tana, nido, cuccia, sicurezza, calore, cibo ecc., e mettere in relazione questi significati con una fondamentale dinamica evolutiva che va dall’attaccamento alla separazione ed alla esplorazione del mondo.

Come si ricorderà, qualcuno chiamava questa dinamica “la nascita psicologica del bambino” (Mahler, 1978). L’argomento non è più di moda tra gli psicologi di oggi, ma riteniamo che non sarebbe privo di interesse rivisitarlo alla luce delle grandi acquisizioni della ricerca recente sui processi cognitivi e sullo sviluppo delle relazioni interpersonali.

Un’altra teoria utile potrebbe essere quella di Fornari (1963). La casa, non solo linguisticamente, rientrerebbe chiaramente nel “codice materno” versus un “codice paterno” più proiettato verso il mondo là fuori. Ma qualcun altro ci avverte che la permanenza oltre il dovuto nel maternage della casa porta patologia e che occorre uscire di “casa” per accedere all’ordine simbolico della individuazione della persona (tanto per scomodare perfino Lacan). Ma “uscire di casa”, si sa, è sempre un cammino lungo, difficile, talvolta doloroso e mai compiuto. E sappiamo anche che in “casa” non ci sono solo rose e fiori, ma anche sofferenza, conflitti e delitti.

Come si sa gli psicologi usano anche spesso il disegno della casa come test proiettivo, in cui i bambini dovrebbero esprimere emozioni e vissuti, sia positivi che negativi. Tuttavia bisogna essere molto cauti nell’interpretazione perché spesso la casa disegnata è solo uno stereotipo di casa, appreso da immagini di libri, video, cartoni animati o altro. È proprio questa l’esperienza fatta dagli Autori di questa introduzione. Tanti anni fa, al tempo della guerra in Kossovo, andammo in Albania, come volontari, a lavorare presso una parrocchia che aveva ospitato un grosso numero di famiglie kossovare rifugiate. Pensammo bene, vista la difficoltà linguistica, di fare una ricerca sulla esperienza dei bambini proprio mediante il disegno della casa; ottenemmo un mucchio di disegni di casette ben fatte e colorate, piene di fiori, farfalle, uccellini, alberelli e ruscelli. Case e ambienti bucolici ben diversi dagli scontri, gli incendi e i bombardamenti degli aerei della NATO, di cui ci parlavano i genitori; probabilmente i bambini ci avevano disegnato solo lo schema di casa che avevano imparato a scuola. L’unico disegno in cui si fece riferimento alla guerra, fu quello di un bimbo di cinque anni che disegnò i carri armati davanti alla sua casa intatta, che sparavano alle galline!

Comunque il confronto fra casa reale e ideale, per esempio, può darci alcuni indizi su ciò che i bambini percepiscono in famiglia e ciò che desidererebbero. Anche in questo caso, tuttavia, l’esperienza dello psicologo e il confronto con altri strumenti sono fondamentali. (Crotti & Magni, 2012; Federici, 2017)

Sia in pedagogia che in psicologia si parla dell’importanza dell’ambiente ma in genere con ambiente s’intende l’insieme delle relazioni che il bambino stabilisce dapprima in famiglia, poi nelle diverse esperienze sociali.

In un’ottica piagetiana, per esempio, si dà per scontato che anche l’ambiente fisico sia importante sia per lo sviluppo della spazialità e della nozione di tempo, sia per la costruzione delle strutture cognitive del pensiero operatorio. La prospettiva ecologica ci porta a considerare l’ambiente come un insieme di sistemi interrelati e interdipendenti, in cui possiamo avere micro e macro sistemi che influenzeranno lo sviluppo dell’individuo (Bronfenbrenner, 1986).

L’ambiente domestico, tuttavia, non sempre è considerato nelle sue specificità come gli oggetti che il bambino impara a riconoscere o con cui gioca, o la diversità delle stanze (cucina, bagno, stanze da letto, salotto, terrazzi e/o giardini, corridoi, soffitte, cantine). In questo breve focus vogliamo portare l’attenzione, da prospettive diverse, proprio su alcune di queste specificità.

Infatti gli articoli che seguiranno, metteranno a fuoco singoli aspetti dell’abitare, soprattutto in relazione ai bambini.

In particolare, l’articolo dell’architetto e designer Massimo Iosa Ghini punta l’attenzione sulla stanza dei bambini e su come sia importante progettarla come uno spazio “duttile”, che deve seguire la crescita e i cambiamenti che porteranno ad uscire da quel luogo che ci ha accolti e avvolti fin dai primi giorni di vita. È compito di chi la progetta, aprire una finestra immateriale, attraverso la quale prendere il volo.

Il lavoro di Barbara Caprara ci mostra come la casa possa offrire materiale di apprendimento in un’ottica montessoriana, mentre Alessandro Colombi analizza la casa in quest’epoca informatica, evidenziandone i vantaggi e i rischi per i più piccoli.

L’articolo di Beate Weyland sviluppa l’idea di creare un ponte fra casa e scuola attraverso una rivisitazione dello spazio educativo alla luce di quello domestico, mentre il contributo di Alessandra Farneti verte sul significato simbolico e affettivo che le cose di casa possono assumere.

 

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Infanzia, n. 1 gennaio-marzo 2022

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